
La parte più potente del nostro cervello
La parte più potente del nostro cervello Perchè non la stiamo usando e perché dovremmo. Tempo fa ho letto un tweet di Richard D. Bartlett
Che il mondo stia cambiando è ormai evidente e già tutti, me compreso, lo hanno detto in qualche modo.
Ciò che varia da persona a persona è il modo di interpretare questo cambiamento. Alcune persone lo considerano positivo e sperano che l’umanità si stia evolvendo verso un mondo migliore, e c’è chi invece pensa che stiamo correndo verso l’estinzione e la distruzione del pianeta.
In realtà, le posizioni sono spesso estreme e anche chi crede che possano coesistere aspetti positivi e negativi tende a considerare il buono estremamente buono e il cattivo estremamente cattivo. Ancora una volta, una polarizzazione porta a schierarsi per conservazionismo o riformismo, passato o futuro, tradizione o innovazione, ecc …
In altre parole, viviamo in un’era di fondamentalismi.
Un termine spesso associato ad azioni violente con una grande copertura mediatica, ma che in realtà permea molte scelte e idee meno scontate con un impatto altrettanto forte sulle nostre vite, sia nei nostri contesti di vita quotidiana che nel nostro lavoro.
Mac o PC, mare o montagna, repubblicano o democratico, ecc…
Scommetto che mentre leggevi queste coppie di parole il tuo cervello ha avuto, anche involontariamente, la tendenza a preferire l’una o l’altra delle due proposte.
Le ragioni possono essere spiegate da un punto di vista evolutivo, psicologico o sociale, ma il fatto è che siamo costantemente guidati da tendenze fondamentaliste.
Ora, anche se ho a cuore la scelta tra trascorrere le vacanze in uno chalet a Courmayeur o su un’amaca in un’isola tropicale, voglio soffermarmi per qualche minuto sui rischi che una cultura fondamentalista può portare nella gestione delle nostre organizzazioni.
Per coloro che lavorano nelle organizzazioni, a qualsiasi livello, questa tendenza arriva in questioni come: gerarchia o potere distribuito, piramidi o cerchi, pianificazione e controllo o gestione agile e iterativa, ecc…
1. Tiene lontano chi è diverso da noi
Quando per la prima volta ho sentito parlare di sushi (sì, sto parlando di sushi in un articolo sul cambiamento organizzativo), ho promesso a me stesso che non l’avrei mai assaggiato in tutta la mia vita. La persona che me ne ha parlato, infatti, lo ha fatto con un tono di disprezzo verso chi non aveva mai provato la cucina giapponese, come se fosse un gradino più in basso di lui nella scala sociale. Quel modo di fare ha suscitato in me un allontanamento psicologico da quella persona e, di conseguenza, da ciò che mi proponeva.
Quando invece, con un gruppo di amici, ho avuto la possibilità di provare il sushi senza giudizio e costrizioni non solo mi è piaciuto ma adesso quella giapponese è una delle mie cucine preferiti. Penso che ora si possa sostituire la parola “sushi” con qualsiasi altro termine per capire come il fondamentalismo, basato sul rifiuto della diversità, non fa altro che innalzare sempre di più le barriere esistenti invece che abbassarle e, se possibile, eliminarle. Questo, inoltre, in un mondo sempre più interconnesso non è più un obiettivo secondario per chi vuole sopravvivere e prosperare nell’era dell’instabilità e della complessità in cui viviamo.
2. Uccide dall’interno
Costruire le nostre organizzazioni su una cultura fondamentalista (di qualsiasi tipo) porta con sé il rischio di creare attriti al suo interno dovuti alla naturale evoluzione umana che si scontra con l’innaturale rigidità organizzativa.
In altre parole, all’interno di ogni sistema complesso, le parti di cui questo è composto cambieranno organicamente nel tempo. Con il cambio delle singole parti si avrà la fisiologica tendenza a cambiare anche i rapporti con le altre parti, prima con quelle a diretto contatto e poi con quelle più lontane. Questo processo è bilaterale e continuo nel tempo. Ciò significa che, in ogni organizzazione, c’è un sistema informale (fatto di relazioni) che muta costantemente nonostante il sistema formale (fatto di regole) vi si adatti o meno.
Chiaramente, in un’organizzazione fondamentalista la tendenza sarà quella di mantenere un sistema formale stabile, provocando nel tempo un crescente stress per l’evoluzione delle singole parti e delle loro relazioni. E se, per usare una metafora, un organismo vive grazie alle cellule di cui è composto, se queste cellule muoiono, l’intero organismo muore.
3. Uccide dall’esterno
Per definizione un sistema rigido è un sistema che difficilmente si adatta al cambiamento. Ma come abbiamo detto all’inizio di questo articolo, che il mondo sta cambiando è ormai innegabile. Inoltre, la tendenza è che il ritmo di questo cambiamento sia in continua crescita. Questo ci porta a pensare che, anche quando siamo stati in grado di creare un sistema che ha resistito efficacemente ai cambiamenti del passato, non possiamo mai essere sicuri che lo stesso sistema possa resistere ai cambiamenti del futuro. Questo per un semplice motivo: non abbiamo idea di quali potrebbero essere i cambiamenti futuri.
Anche un’organizzazione che oggi sembra rispondere molto bene ai bisogni che la complessità ci presenta, potrebbe essere domani del tutto inefficace quando la società si sarà evoluta verso nuove forme del tutto imprevedibili.
Per queste (e certamente altre) ragioni, il cambiamento non può più essere governato dalla logica della tradizionale visione dicotomica del fondamentalismo, ma deve essere concepito come un processo graduale e costante.
Questo ci impone di cambiare non solo il modo in cui vediamo il cambiamento, ma anche il modo di vedere le organizzazioni stesse.
Chiudendo il cerchio con quanto detto all’inizio, anche se ci sono posizioni radicali, non possiamo più (se mai potremmo) distinguere le organizzazioni conservatrici, gerarchiche e burocratiche da quelle agili, adattive e dinamiche. La realtà è molto più simile a quella che è possibile fotografare con il diagramma sottostante, in cui ogni organizzazione può essere collocata in un qualsiasi punto dello spazio 3D creato dai tre assi.
Questo, in particolare, è uno dei tanti strumenti che utilizziamo in Cocoon Pro per capire dove si trova un’organizzazione oggi, e in quale direzione vuole andare domani rispetto a tre aree specifiche: leanness, openess e inclusiveness.
Ora non è importante entrare nei dettagli dello strumento, quanto invece capire la cultura che lo permea. Una cultura secondo cui ogni organizzazione può essere collocata lungo un continuum fatto di infiniti scenari possibili.
Non esistono organizzazioni agili e organizzazioni tradizionali, ma esistono organizzazioni complesse, in cui possono coesistere persone diverse, culture diverse, competenze diverse, strumenti e processi diversi. E dobbiamo guardare a tutte queste cose con curiosità e onestà, in modo da poterci chiedere qual è la direzione in cui vogliamo andare.
Ma come guardare alle nostre organizzazioni con curiosità e onestà?
Sii guidato dal valore anziché dalle etichette
Le opinioni polarizzate e fondamentaliste si basano sulle differenze, quindi potresti avere o meno alcune caratteristiche, in modo esclusivo. Questo crea una tendenza ad aspirare ad acquisire determinate etichette per poter provare qualcosa a noi stessi e al mondo. Ma in realtà l’acquisizione dell’etichetta dimostra solo di aver completato un certo percorso, senza dire nulla su chi siamo veramente.
Pensa, ad esempio, quante persone si laureano (etichetta) oggi; un numero in continua crescita che non è più in grado, da solo, di dimostrare il reale valore di questa o quella persona. Qualcosa di molto diverso è il valutare una persona non dai titoli che detiene, ma dal valore reale che ha già creato nel proprio ambiente (professionale, relazionale, ecc.).
Allo stesso modo, dovremmo chiederci qual è il valore reale che la nostra organizzazione ha già creato e qual è il valore che la nostra organizzazione può creare, invece di chiederci a quale etichetta possiamo aspirare. Non è importante definirci “Agile”, “Lean”, ecc…; queste sono ormai diventate parole senza alcun valore reale. Ciò che conta davvero è essere Agile, Lean, ecc … nella misura in cui ci permette di risolvere i problemi e cogliere le opportunità della nostra specifica realtà interna ed esterna. Sono tutti ottimi mezzi per raggiungere un fine. Se, invece, vengono visti come un fine essi stessi, probabilmente siamo ancora guidati dalle etichette e quindi incorriamo nei rischi che abbiamo visto sopra.
Co-crea
Un organismo complesso è tale perché è composto da parti le cui interconnessioni cambiano continuamente in modi che non consentono di prevederne l’evoluzione. Un organismo complesso è, in altre parole, più della somma delle sue parti.
Non è possibile prevedere il comportamento di un banco di pesci dal punto di vista di uno solo dei pesci che lo compongono; non puoi capire la personalità di una persona attraverso una sola regione del suo cervello. Allo stesso modo, non è possibile essere a conoscenza di un’organizzazione se non si tiene conto di tutte le sue parti.
Tutte queste proprietà sono caratteristiche emergenti; nascono da relazioni non lineari, creando strutture più complesse delle parti che le compongono.
Diventa quindi fondamentale coinvolgere tutte le parti coinvolte, in uno spazio di co-creazione della propria identità e dei propri obiettivi.
Si è così passati da una visione fondamentalista e aprioristica ad una visione molto più complessa, in grado di (iniziare a) spiegare gli infiniti gradienti presenti nei sistemi umani in cui operiamo.
Solo così potremo avviare un vero e proprio processo di cambiamento e miglioramento continuo che potrà portarci a superare continuamente i nostri limiti in un’ottica di crescenti livelli di performance e soddisfazione.
È ora di aprire una nuova cultura, non più basata sulle differenze ma che accolga la presenza degli opposti: conservatorismo e riformismo, passato e futuro, tradizione e innovazione, ecc… per diventare finalmente ambidestri, in grado di mantenere vivi i processi che abbiamo e che ci hanno reso forti fino ad ora e allo stesso tempo ridisegnarli per essere preparati a cambiamenti futuri e imprevedibili.
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